In effetti si tratta di lasciar parlare i poeti.
Può essere già accaduto, in altri tempi, di chiedere alla poesia di offrici sguardi diversi sulla vita e le cose. Ma ora di più, con più spazio e tutto il silenzio che esigono.
In questi giorni difficili, in cui i primi in cordata sono i ricercatori, gli infermieri, i medici, i farmacisti, i volontari del soccorso, le forze dell’ordine, i lavoratori della catena alimentare, le cassiere, gli autisti, i lavoratori delle comunicazioni, è inevitabile pensare che qualcosa nella nostra società sia cambiata per sempre. Lo scrive oggi (4 aprile 2020 ndr.) un articolo del Guardian e lo si sente affermare da più parti, da giorni. La verità è che ci siamo resi conto che la nostra scala di sopravvivenza poggia su qualcosa che davamo per scontato e invece non lo è. Esiste al prezzo del lavoro di tante persone che non erano esattamente al primo posto della classifica sociale. Noi stessi, se siamo attivi, lo siamo facendo altre cose rispetto a prima.
In questi giorni difficili perché i poeti? E perché Hölderlin?
Innanzitutto perché la domanda se la pose lui stesso, in una lirica che porta il titolo Brod und Wein, Pane e vino. “Perché i poeti nel tempo della miseria?” Il tempo della miseria, quello che lui definisce dürftige Zeit, è il tempo del dubbio, il tempo delle tenebre, dove la sola salvezza pare essere la parola. La parola che ci offra una “coppa ricolma” e possieda il ristoro capace di sostenerci. I poeti sono “come i sacerdoti del Dio del vino, che andavano di paese in paese nella sacra notte”.
“Con lui siamo moderni”, titola Die Zeit il 20 marzo 2020, il giorno in cui cadeva il 250. anniversario della sua nascita. Contemporanei di Hölderlin, e dunque anche loro celebrati in questo 2020, furono Hegel e Beethoven.
Il loro era il tempo della Rivoluzione Francese. Avevano diciannove anni quando in Germania arrivarono gli echi di quanto era accaduto in Francia e molti dei loro compagni di scuola ballarono intorno all’albero della libertà. Forse anche loro. Il tempo non sarebbe più tornato indietro e la condizione dell’uomo non sarebbe mai più stata la stessa. Anche questo un motivo per parlarne oggi.
I tre ragazzi presero la faccenda sul serio, e cambiarono per sempre il modo di guardare le cose. Ognuno dal canto suo. Hölderlin è convinto che il mondo, il suo mondo, si salverà tornando alla Grecia, ad Atene. Alla Bellezza. Gli dei potranno tornare solo nella Bellezza, nell’armonia dell’uomo e della natura. Un’armonia che si è spezzata da troppo tempo, perché il presente è il presente dei barbari, della notte in cui gli dei sono fuggiti.
Certo la sua visione della Grecia era influenzata da Winkelmann, ma ancor di più da Sofocle, di cui tradusse l’Antigone. Il grande interesse per l’eroina di Sofocle fu un ideale condiviso da Hölderlin con Hegel e Schelling, suoi compagni di studio nel Seminario Teologico di Tubinga, il celebre Stift. Entusiasti della Rivoluzione Francese ai suoi esordi e seguaci dell’idealismo kantiano i tre studenti, legati da una simbiosi intellettuale, erano ben decisi a far rivivere “quell’aurea età di verità e bellezza che fu la Grecia”. Hegel definirà “Antigone” la tragedia sublime per eccellenza. E “la divina Antigone la figura più nobile comparsa sulla terra”.
Tre cose appaiono fondamentali in questa passione per Antigone. La prima è che la tragedia greca celebra la libertà umana perché permette ai suoi eroi di combattere contro la prepotenza del destino. Ma il destino è tragico e il fato è la potenza invisibile che porta l’uomo alla sconfitta. Ma come sovranamente afferma Steiner la sconfitta cristallizza la libertà dell’uomo, la sua lucida spinta ad agire e ad agire polemicamente, il che determina la sostanza del suo essere. Antigone poi, seconda cosa, è una donna che lotta contro il potere per difendere la propria libertà di pensiero e azione. In un momento storico come quello della Rivoluzione anche una nuova visione del ruolo femminile si impose, come dimostrano le molte figura di donne emblematiche, Madame de Staël, intellettuale, romanziera e filosofa, che fece conoscere al mondo i romantici tedeschi e Charlotte Corday, autrice dell’assassinio di Marat, immortalata dal dipinto di David, per nominare i due estremi. E poi, terza cosa, l’Antigone di Sofocle drammatizza l’intreccio del pubblico e del privato, dell’esistenza individuale e quella storica. E la storicizzazione dell’individuo è stata una delle eredità della Rivoluzione Francese.
La supremazia culturale di Atene era la supremazie della bellezza, e la assoluta libertà dell’uomo che nella tragedia combatte contro il destino. La forza interiore, “l’immensa aspirazione ad essere tutto ciò che s’infuria nelle profondità del nostro essere” ha un’altra faccia: la fragilità politica e personale. “Proprio questo è triste, mio caro, che il nostro spirito prenda così volentieri l’aspetto del cuore smarrito e che così volentieri trattenga il dolore fuggitivo…Oh! ciò ha fatto sì che molte persone sono sembrate pazze… e le più nobili nature sono diventate oggetto di scherno”, e ancora “questa è la scogliera per i beniamini del cielo: che il loro amore è potente e delicato come il loro spirito”.
Hölderlin poeta non si priva di una visione politica. Iperione, il protagonista del romanzo omonimo, è greco ed ha partecipato alla rivolta del Peloponneso del 1770. La narrazione si apre a guerra finita, dopo la vittoria contro l’impero Ottomano, ma anche dopo le immani perdite della Grecia in termini di uomini e – secondo Iperione – di dignità. Colui che si sentiva l’anima leggera e guardava al futuro come ad un’acqua chiara, e vedeva la Grecia come ad un futuro libero stato, una rinnovata patria per tutto ciò che è bello, ha visto depredata la sua giovinezza in un solo giorno. Nulla è accaduto come aveva sperato. Credeva di avere dei compagni sostenuti dallo stesso suo ideale e uniti a lui nella stessa avventura, si trova sul medesimo fronte di soldati che dopo aver forzato l’assedio si danno al saccheggio. Comprende che “l’uomo non può mutare nulla e la vita viene e riparte, come esse vuole”.
Questo confida a Bellarmino, l’amico cui Iperione racconta la sua guerra nel romanzo epistolare. Bellarmino è anche il muto confidente degli incontri di amore più che di amicizia del giovane Iperione con il suo mentore Adamas e con il rivoluzionario Alabanda. A lui descrive l’incontro con Diotima, la donna del suo destino, colei che incarna per Hölderlin l’ideale di Bellezza, non solo la pulchritudo vaga di Kant, ma la Bellezza nelle ragioni stesse del suo esistere e di essere salvezza del mondo.
“La perfezione che noi collochiamo al di sopra delle stelle, che noi allontaniamo sino alla fine del tempo, questa perfezione io l’ho sentita presente..Non domando più dove essa è; è esistita nel mondo e può ritornarvi, vi è soltanto nascosta. Non domando più cosa sia, l’ho veduta. l’ho conosciuta. O voi che cercate quanto vi è di più alto e di più perfetto, nella profondità della sapienza, nel tumulto dell’azione, nel buio del passato. nel labirinto del futuro, nelle tombe e al di sopra delle stelle, conoscete il suo nome? il nome di ciò che è uno e tutto? Il suo nome è bellezza.
L’incontro con Diotima in tutta la sua pienezza non dura, perché il giovane si sente chiamato ad un destino più alto, quello di condurre gli altri uomini sulla strada dell’ideale di Bellezza. Si sente un figlio degli dei, ma vive nella Grecia e nel mondo dei suoi giorni, e il suo sogno naufraga nell’istinto predatorio dei suoi concittadini. E quando, dopo la delusione delle guerra in Grecia, decide di recarsi in Germania la situazione non è diversa.
“Barbari, scrive dei Tedeschi, sin da antichi tempi, resi più barbari dallo zelo, dalla scienza, e persino dalla religione, profondamente incapaci di un qualsiasi sentimento, anche religioso… Nulla di sacro esiste che non venga profanato da questo popolo… questi barbari che sanno solo calcolare”. Barbari, spiego, perché non posseggono quella gioiosa e spontanea adesione alla natura e al vivere con gli altri. Barbari perché non hanno riconosciuto la Bellezza là dove essa vive, nell’amore e nella natura.
Ma, scrive il poeta in una lirica intitolata Pathmos, “là dove c’è il pericolo, anche ciò che salva cresce”. Però la strada è difficile, al nostro fianco è sempre lo sconforto e la solitudine è una tentazione. Forse per questo ci sono i poeti, perché il cammino è arduo e la Bellezza .
“..spesso mi sembra /meglio dormire, che senza compagni/ continuare l’attesa, e che fare intanto e che dire/ non so, e a che scopo i poeti nel tempo della miseria?”