Clementina Casula, con il suo libro <<Diventare musicista. Indagine sociologica sui Conservatori di Musica in Italia>> (Universitas Studiorum 2018) ci offre una vasta prospettiva della situazione dell’istruzione musicale nel nostro paese.
La sua indagine approfondita, che prende in esame tutte le vicende che hanno portato le istituzioni musicali allo stato attuale, ci pone nella prospettiva migliore per fare una valutazione a vent’anni dalla riforma. Luci e ombre di un cambiamento molto auspicato e necessario, che ha avuto conseguenze non del tutto previste. Come d’altronde ogni cambiamento.
Il serio compito di fronte al quale si sono trovati i Conservatori, ossia il passaggio da una istruzione pressoché univoca (ossia una scuola per strumentisti, una mono cultura del virtuosismo solistico) ad una organizzazione di tipo universitario, destinata a sfociare in un riconoscimento universitario del titolo di studio, è stata organizzata e realizzata dai soli docenti e per di più – come si è detto fin dl principio – a “costo zero”. Le istituzioni più che altro hanno badato ai costi, senza il più delle volte badare ai contenuti. L’approvazione e dunque la misura di ciò che era realistico o no ha cominciato, da vent’anni a questa parte, a diventare il costo. Per l’istituzione o per lo Stato.
Da autorità culturali che erano i Direttori di Conservatorio si sono trovati a poter promuovere o penalizzare iniziative solo in base ai costi. La loro indipendenza culturale si è dovuta dunque adattare alle ristrettezze sempre maggiori in cui lo Stato ha tenuto la scuola e la ricerca. Gli stessi capi di istituto che un tempo erano vincitori di concorso, oggi vengono scelti democraticamente tra i docenti, ma la loro funzione di “guardiani” delle risorse determina anche i criteri o la scala di valori secondo la quale i singoli elettori sono chiamati a valutare i colleghi che si candidano alla direzione dell’Istituzione. Essere un musicista riconosciuto non basta ad essere considerato dai colleghi un buon amministratore. Le conseguenze sono ovvie.
La cornice culturale entro cui è maturata la riforma è stata appunto questa.
Con il passaggio ad una organizzazione universitaria anche il corpo studentesco è fortemente cambiato. La nuova condizione globale in cui si sono trovati gli stati, europei e non, ha avvantaggiato enormemente lo scambio degli studenti. La generazione Erasmus è entrata nelle Istituzioni musicali con grande vantaggio delle istituzioni stesse. Nuove idee, nuove esigenze. Anche i docenti si sono trovati a dover modellare programmi e contenuti in rapporto alla preparazione della nuova popolazione scolastica. Spesso ciò ha portato ad un sensibile miglioramento e innalzamento della qualità.
Sicuramente per la maggior parte dei docenti questa è stata una porta aperta sul futuro, sulla loro capacità di immaginazione, finalmente sulla loro professionalità, che nella scuola del passato era (se non altro in alcuni casi) mortificata da programmi immobili dal 1938. La reazione a quell’immobilismo è stata una grande occasione che tutti, a livello personale e istituzionale, hanno colto al volo. Il ministero ha approfittato per lavarsene le mani e soprattutto non metterle al portafoglio.
Ora questa latitanza si sente e ci si accorge che ha provocato dei danni. Non poter disporre di un giusto finanziamento porta inevitabilmente a dimensionare le aspirazioni. Il Conservatorio continua a non riconoscere il lavoro intellettuale come tale. Le ore di lavoro sono conteggiate solo in rapporto alla presenza. La preparazione è una scelta personale, non solo non retribuita, ma neppure riconosciuta. E anche questo ha ovvie conseguenze, in un senso e nell’altro.
Eppure l’impegno culturale dei docenti è un potenziale che strategicamente sarebbe funzionale al miglioramento delle istituzioni e dell’offerta formativa. Se la missione collettiva ( utilizziamo un’espressione di Zygmunt Bauman) fosse chiara e condivisa le cose starebbero assai diversamente.
La differenziazione culturale è una delle caratteristiche della classe docente delle istituzioni musicali. Finora si è guardata questa differenziazione (che dipende da carriera professionale, di studio, didattica assai difforme tra un docente e l’altro e tra una docenza e l’altra) come ad una autentica Torre di Babele. In verità dovrebbe essere considerata un terreno fertile, un laboratorio continuo per gestire il cambiamento. E’ da lì che si deve partire. Il resto è obsoleto: i comportamenti da Re Sole di alcuni direttori (di oggi come di eri) e da privilegiata aristocrazia di alcuni docenti/assistenti (che si sentono difensori del sacro suolo di Versailles), e non vedono altra possibilità che non sia la progressiva banalizzazione della cultura.
Eppure il cambiamento della società, della politica e della cultura sembra indicare qualcosa che ci inviterebbe a non arrenderci per non perdere l’occasione di essere protagonisti del futuro.